Servizio Civile Universale

Il Madagascar raccontato da Anna

Written by Francesca

Sono passati due mesi dal mio arrivo qui in una terra così vasta e così ricca di cultura, paesaggi, specie animali e contraddizioni. Una terra che ti accoglie gridandoti per strada “vasaha” (=straniero), seguito da un sorriso, una risata, un’alzata di sopracciglia o un cenno della mano.

Una terra dove il blu del mare, incontra il bianco della spiaggia, poi il verde delle palme e della foresta, il marrone dei baobab ed infine il rosso delle montagne d’ambra.

Una terra dove il tempo scorre in modo diverso, dove il concetto di ritardo non esiste perché non esiste neanche quello di puntualità, dove le strade sono un mix di cemento e terra, piene di buche (alcune sono dei veri e propri fossi), di ponti traballanti; dove guidare è una prova di coraggio, dove non esiste la linea di mezzadria e neanche un senso di marcia; perché ognuno cerca di evitare il maggior numero di buche e di conseguenza non è raro percorrere lunghissimi tratti in contromano.

Una terra di corruzione e povertà, di capanne fatiscenti, di intere famiglie che vivono nelle discariche, di bambini vestiti con niente, di mancanza di acqua, di differenze sociali e di situazioni difficili. Ma al contempo una terra ricca di cacao e vaniglia, di frutti tropicali eccezionali (neanche lontanamente paragonabili a quelli che arrivano in Italia), di risorse naturali e materie prime e, in alcune parti, anche di acqua.

Una terra divisa in due dal clima, che alterna una stagione delle piogge molto afosa e una stagione secca. Una terra dove le etnie e le religioni convivono pacificamente da molto tempo e in cui ogni occasione è buona per fare festa, per mangiare insieme seduti ad un tavolo per strada pieno di banane fritte, mofogasy, una specie di gnocco fritto, insalata di mango, riso e pollo.

Una terra in cui si vive per strada perché essa rappresenta la veranda, la cucina, il salotto; qui ci si incontra, ci si ferma a scambiare due parole, si beve una birra, si fuma una sigaretta, si ripara una moto, si cambia la ruota ad un taxi-brousse o ad un pus pus, si ascolta la radio, si osserva la gente passare, si mangia, si gioca. Una terra in cui solo la mancanza di elettricità può spegnere la musica per ore e per giorni perchè altrimenti sarebbe accesa ininterrottamente a tutte le ore del giorno e della notte.

Questa terra è il Madagascar, più precisamente Ambanja; una città di circa 35 mila abitanti del nord ovest del Madagascar, a meno di 20 km dal porto che collega la grande terra a Nosy Be. La città è attraversata da quella che è l’unica strada che collega Tana a Diego Suarez, una strada abbastanza trafficata che ai suoi lati ospita centinaia di bancarelle di vestiti, stoffe, scarpe, pupazzi, cancelleria, frutta e verdura, ecc. Qui fanno da padroni la pussière, l’odore di fritto e le voci squillanti dei passanti, tutto l’opposto di quello che invece è la casa delle suore. Appena il cancello si chiude alle mie spalle entro in un’oasi di pace, un giardino verdissimo ricco di piante da frutto e fiori, dove l’unica fonte di rumore sono il gallo che canta a qualsiasi ora, il muggito di Kalasada, le preghiere delle suore e, durante la settimana, le grida dei bambini che prima di entrare a scuola giocano e si divertono nel cortile.

Anna, operatrice volontaria SCU in Madagascar

 

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